Anche il cantautore e chitarrista che ha vinto la targa Tenco con il suo disco «Assamanù” sarà al palazzetto dei nobili de l'Aquila e  al palazzo del mare di Roseto degli Abruzzi il 26 e 27 marzo alle ore 11  con Paride Vitale  invitato dalla Officina culturale" per la rassegna storie, tradizioni  e identità dell'Abruzzo 

Come oramai noto a tutti la sfida di Setak, nel cantare in dialetto, è stata quella di trattarlo come «una lingua come un’altra». E al terzo disco in abruzzese, intitolato «Assamanù», il cantautore e chitarrista 39enne si è aggiudicato la targa Tenco per il miglior album in dialetto, «una boccata di ossigeno e di energia” . Setak, nome d’arte di Nicola Pomponi, ha cominciato questo percorso dopo una crisi: «Mi ero reso conto che noi musicisti in Italia troppe volte cerchiamo di scimmiottare quel che viene da fuori, specie i miti inglesi e americani degli anni 60 e 70 — racconta —. Mi sono sentito parte di un presepe di persone che imitavano uno scenario che non esiste più. Ho attraversato una forte depressione, ho anche smesso di suonare. È stato un periodo buio in cui non ero centrato».

Quando ne è uscito, a guidarlo è stata la volontà di «fare una cosa solo mia, di cui un giorno essere orgoglioso e in cui essere sincero». In parallelo a una carriera avviata come chitarrista pop (ha suonato con Rettore, Noemi, Fiorella Mannoia e suona con Tommaso Paradiso), da solista ha iniziato allora a unire le sue radici alla musica che lo ha influenzato, tra blues, folk e amore per «persone che hanno mescolato suoni» come Peter Gabriel o Ry Cooder. Quasi inconsciamente, è riaffiorata anche una sua passione di bambino: «De André mi ha cambiato la vita con “Creuza de mä”. Avevo quella cassettina a 7-8 anni, ma nemmeno sapevo che fosse lui o che cantasse in genovese. Ricordo però che mi dava i brividi e le lacrime di gioia». Se Setak, suo pseudonimo, viene da «setacciaro», nomignolo dato ai suoi avi, nelle canzoni non parla per forza dell’Abruzzo: «Ho un legame viscerale con la mia terra, ma non mi interessa rivendicarlo. Siamo abituati a vedere il dialetto come una cosa campanilistica, ma volevo tralasciare l’aspetto folkloristico e dire cose normali».

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